di D.C.
foto Nick Zonna
Gomorra? Non lo rifarei, mi ha portato via la libertà”. Così resta poco da scrivere.
Dieci parole che segnano tutto, un’esistenza, una scelta, forse il caso. Sicuramente la certezza di una destinazione: una vita sottoposta alle regole rigidissime della protezione, della scorta della sicurezza indotta e necessaria.
Così Roberto Saviano a Como, all’apertura del Noir in Festival, quando ha ricevuto Raymond Chandler Award, premio alla carriera per i più alti esponenti del thriller e del noir. Il riconoscimento, ideato nel 1988, dal 1993 viene consegnato dal Noir in Festival, prima a Courmayeur, oggi a Como. Saviano è nato a Napoli, il 22 settembre 1979: giornalista, scrittore e saggista – Gomorra, appunto, il romanzo d’esordio – è prima di tutto un cronista: anche quando si presta alla letteratura utilizza la forma racconto del reportage per segnare perimetri e sostanza dell’Italia, per descriverne la realtà economica, politica e criminale. Partendo dalla camorra, per arrivare a un pensiero più ampio che unisce finanza, interessi, malaffare e ogni forma di criminalità organizzata. Le prime minacce di morte nel 2006, con i cartelli della camorra campana – i Casalesi in primis – oggi è sottoposto a protezione speciale. Roberto Saviano, insomma, entra sempre per secondo in una stanza. “Io sono qui, in questo Teatro
– dice Saviano a proposito della (mancata) libertà – vi posso guardare negli occhi: questo è un dono. Mi viene concesso questo. E questo tempo lo succhio, lo divoro”. “Avevo 26 anni al tempo di Gomorra – dice – ne sono passati dieci e sono qui. Una sorta di vendetta contro chi voleva che mi fermassi, che non andassi avanti: io sono qui”. “Sono sopravvissuto a tutto, alla depressione, al dolore, all’insonnia. Ho confessato a un quotidiano spagnolo questa cosa raccontando che ogni tanto prendevo un sonnifero, il titolo, due giorni dopo era “Saviano prende le gocce”, il resto dell’intervista spazzato via. Mi sono dovuto proteggere da questo, mi sono chiuso.
Temevo che una mezza parola mi rendesse bersaglio, la cosa più terribile è stato dover giustificare il fatto che fossi vivo. “E quindi?” – racconta ancora – Ti rivolgi ai maestri.
Giovanni Falcone è stato un maestro, per una vita si è dovuto difendere dalle accuse.
Quando trovarono la borsa di tritolo sotto casa sua sostennero che l’avesse messa lui, da solo. Perché, era la tesi, “Cosa Nostra non ti avverte: o ti ammazza o non ti ammazza. E Falcone rispose che loro Cosa Nostra sa bene di dimostrare qualcosa con le minacce: la vita si concede o non si concede”. Questa è la vita di Saviano. Poi un pensiero: qualcuno dice che scrivere il male diffonde il male. Come se denunciare i crimini altrui rendesse, chi li racconta, corresponsabile. “Mi ha molto ferito questa accusa – spiega Saviano – facciamo vedere Don Matteo e purifichiamo un Paese. Don Matteo è un valore davvero, ma non può esistere solo questo. Dove nasce il cortocircuito? Qualcuno accusava Zolà e Flaubert di non scrivere per confortare ma per tormentare. A me non interessa far evadere il lettore, a me interessa invadere”.
Mar
22
2017